Non intendo affrontare l’argomento dal punto di vista della devianza minorile, né discutere su cosa sarebbe accaduto qualora l’epilogo della vicenda avesse visto ribaltate le parti, lasciando ai veri esperti del settore i commenti e le diagnosi, ma credo che queste occasioni, siano spunto di riflessione su argomenti correlati, che ritengo di grande importanza anche se di più ampio respiro.
Ho avuto occasione, nel corso di molti anni passati in prima linea, di affrontare e studiare alcune problematiche relative allo sviluppo delle risorse umane, quale fattore di incremento della qualità del rapporto tra l’operatore delle forze di polizia ed il cittadino.
Con la definizione di cittadino, non mi riferisco solo al soggetto qualunque che viene in contatto con l’operatore delle forze dell’ordine per motivi di carattere ordinario ed in modo tranquillo, ma voglio intendere anche il cittadino che rientra nella fattispecie dei soggetti con comportamenti a rischio, siano essi vittime o autori di reati, comunque soggetti con i quali l’operatore deve stabilire una collaborazione, quindi anche soggetti in stato di alterazione mentale e così via.
Ho avvertito questa esigenza, già da molti anni, perché nella mia attività di tutti i giorni, mi sono reso conto che l’operatore di polizia, entra in contatto con situazioni eterogenee e con eventi psicologici che si sviluppano al di fuori delle sue previsioni e volontà. In questi casi, la prevenzione delle situazioni a rischio, è inevitabilmente connessa al modo in cui l’operatore entra in un contesto e si relaziona con l’altro.
La pratica professionale dell’operatore di polizia e gli studi in merito, hanno ormai sottolineato che, oltre alle caratteristiche attinenti al ruolo specifico, è necessario sapere gestire i propri momenti di crisi e le proprie difficoltà personali in relazione a specifiche caratteristiche del proprio lavoro.
In pratica, voglio dire che oggi, per ottenere una efficace performance dell’operatore di polizia, si deve considerare la necessità di sviluppare le capacità relazionali degli operatori, accompagnando alla normale attività formativa prevista, una strategia con-formativa che possa integrare il tradizionale e specifico addestramento.
Logicamente, non pretendo di dimostrare che esista un qualche tipo di approccio in grado di eliminare del tutto i pericoli, perché ci sono troppi fattori che concorrono a crearli, ma esistono sicuramente dei comportamenti, che riducono in maniera importante il livello di rischio.
Ultimamente, per motivi di studio, ho analizzato la reintroduzione del reato di oltraggio al pubblico ufficiale, inquadrato nell’art.341 bis del codice penale. Non ritengo utile disquisire sul reato reintrodotto, in quanto non è parte importante in questa discussione. Tuttavia, devo dire che è stato lo spunto che mi ha permesso di sviluppare in maniera approfondita, una richiesta, una proposta o semplicemente una riflessione ad alta voce, su problemi importanti che riguardano la professione di operatore delle Forze di Polizia.
Questo reato, mette al centro dell’attenzione la figura del pubblico ufficiale, tentando, in maniera alquanto ardua, di difenderne l’onore ed il decoro da parte delle eventuali offese arrecate dal cittadino. Quindi, qualcuno si è preoccupato, nel corso dei secoli, (considerato che è un reato già previsto dal codice zanardelli del 1889 e poi nel codice Rocco del 1930) di tutelare il pubblico ufficiale, ma nulla quaestio relativamente alle aspettative del cittadino circa il comportamento del pubblico ufficiale.
Una precisazione è d’obbligo, nel senso che sia il codice zanardelli, sia il nuovo reato di oltraggio a pubblico ufficiale, prevedono una esimente in relazione alla reazione del cittadino agli atti arbitrari del pubblico ufficiale.
A parte questo preambolo di natura squisitamente giuridica, vorrei invece parlare di quello che secondo la mia ricerca è emerso in relazione a questa problematica.
Il mio lavoro, si basa su alcuni studi effettuati sia in America che in Italia[1], relativamente alle capacità insite e determinanti nella gestione delle emozioni nella fase di approccio alle situazioni critiche da parte degli operatori delle forze dell’ordine.
Mi riferisco quindi ai concetti di resilienza e coping e dai conseguenti comportamenti degli operatori delle forze di polizia, che possono dare luogo a varie tipologie di approccio relazionale con il cittadino. Ho esaminato e preso in considerazione anche uno studio dell’FBI sul significato psicologico delle uniformi ed ho per questo esaminato due modalità contrastanti di approccio, quali la sindrome di John Wayne e la comunicazione assertiva.
La premessa base di tutto il mio ragionamento è che da molti anni, ci si prodiga molto, per dotare gli eserciti e le forze di polizia di tanta, tantissima tecnologia, trascurando, o meglio non dando la giusta attenzione, a mio parere, alla parte più importante e cioè l’uomo, l’operatore di polizia.
Oggi è cambiata la percezione rispetto al significato di criminalità. Per il cittadino, adesso sono criminali anche quei comportamenti che non sono previsti come tali dal codice penale: gli atti di arroganza, di inciviltà, di aggressività anche verbale, tutte cose che oggi aumentano la diffusione della paura.
Le forze dell’ordine vengono chiamate continuamente per ogni tipo di episodio, la gente vuolela poliziavicina, sotto casa e pretende un intervento efficiente e tempestivo.
Se da una parte aumenta la richiesta di prossimità, di sicurezza partecipata, dall’altra parte, necessita un ulteriore sforzo per migliorare la risposta delle forze dell’ordine.
Il nostro è un lavoro che ci sottopone a condizioni emotive spesso destabilizzanti, dalla sparatoria per la rapina a mano armata, al meno rischioso intervento a seguito di suicidio, incidenti stradali mortali, persone in crisi e malati mentali, ma almeno per il momento, non esistono strumenti psicologici indispensabili per muoversi idoneamente in questi contesti.
Nelle situazioni che ho appena accennato, di alto impatto emotivo, la psicologia insegna che si subisce una destabilizzazione dell’equilibrio e del controllo emotivo e questo mette in crisi l’accesso ai modelli di risposta più istintivi al pericolo e di conseguenza a quelli appresi in fase di addestramento[2].
Per poter rispondere adeguatamente alle richieste sempre più emotivamente impattanti da parte dei cittadini, gli operatori delle forze dell’ordine devono essere messe in grado di avere le giuste conoscenze psicologiche per la gestione delle proprie emozioni e la capacità di comunicare in maniera adeguata con il cittadino specialmente quello in crisi.
Alcuni operatori di polizia, hanno un innato autocontrollo e questo l’ho sperimentato sul campo, ma ho anche verificato il contrario, quindi a mio avviso, non si può fare affidamento sul buon senso o sulle capacità personali di ogni operatore, ma bisogna dotarlo di quella che io chiamo RAM delle emozioni.
Questa ipotesi, è suffragata specialmente da alcuni studi americani, soprattutto dell’FBI. In Italia, si inizia ora a parlare di questi argomenti, ma per adesso non mi risultano proposte a breve termine e questa affermazione mi deriva dalla ricerca che ho effettuato durante questi anni.
Una sola persona, ha affrontato questo argomento sin dal 1997, una Psicologa Criminologa DottoressaSimonetta Garavini, che ha aperto il viatico di questi studi ed è la sola in assoluto ad averne avuto l’intuizione. Con lei, negli anni citati, ho avuto il piacere di iniziare una serie di seminari nelle scuole dell’Arma dei Carabinieri, tutti seguiti con grande entusiasmo da parte degli allievi, soprattutto per la metodologia improntata in parte sul role play e con plauso della scala gerarchica. La sperimentazione venne interrotta dopo circa due anni senza alcun motivo particolare, ma forse i tempi non erano ancora maturi o mancavano le risorse per continuare il discorso. C’è da dire che proprio negli anni novanta iniziava ad entrare nell’ambiente militare e di polizia la psicologia, ricordiamo il 1993 per l’Arma dei Carabinieri e successivamente le altre forze di polizia.
Alcuni importanti studi iniziano ad avanzare in questi ultimi anni, specialmente a seguito di gravi fatti accaduti in territori stranieri, nelle missioni di pace dei nostri soldati. Dopo alcuni errori e strane risposte comportamentali da parte dei militari inviati in teatri di guerra, anche appartenenti ai Carabinieri, si è iniziato a valutare l’ipotesi di danni psicologici riportati dagli operatori e come fare per evitarli o almeno limitarli.
Si è quindi parlato a lungo di resilienza e coping, due concetti importanti che hanno aperto il viatico del ragionamento psicologico. La resilienza, che è un termine rubato alla fisica dei materiali, è intesa come la capacità di ogni persona di ritornare allo stato originario dopo un evento critico, mentre il coping, significa far fronte, fronteggiare un evento esterno ritenuto superiore alle proprie risorse, potremmo dire quindi, il controllo delle emozioni in situazioni stressanti.
In poche parole, riuscire a sviluppare quella capacità di richiamare alla mente una esperienza positiva, senza soffermarsi sulle valutazioni negative legate alla paura, in modo da mantenere la percezione del controllo della situazione, migliorando la performance e la resilienza. Un addestramento allo stress attraverso la capacità di trasformare i pensieri negativi in positivi[3].
Parlare di emozioni per chi indossa la divisa risulta ancora un impresa ardua. La cultura informale delle forze di polizia scoraggia la libera espressione dei sentimenti. Del resto anche l’aspettativa sociale in questo senso è abbastanza diffusa, il poliziotto deve mostrare distacco e controllo delle proprie emozioni, i cittadini, si aspettano che gli operatori di polizia si comportino in modo stereotipato, mostrandosi forti in situazioni difficili senza mai manifestare i propri sentimenti. Da qui, si sviluppano delle errate interpretazioni del ruolo da parte degli stessi operatori. Il poliziotto deve essere duro, distaccato, difensore della logica della giustizia, oggettivo e la professione del poliziotto è considerata un lavoro che può essere svolto solo da un uomo armato che combatte il crimine.
Da questa considerazione, che si attaglia perfettamente anche in Italia, gli americani verso la fine degli anni ottanta, hanno effettuato uno studio relativo alla cosiddetta Sindrome di John Wayne. Il loro studio partiva da una constatazione circa l’atteggiamento dei loro poliziotti. La sindrome di John wayne consiste in un indurimento emotivo, caratterizzato da autoritarismo, freddezza, cinismo, eccessivo distacco. In poche parole, troppa concentrazione sulla propria persona, che comporta mancanza di flessibilità verso il cittadino e difetto della comunicazione che inevitabilmente nella stragrande maggioranza dei casi, porta a situazioni che possono sfociare nell’oltraggio a pubblico ufficiale oppure a cose ben peggiori, riscontrabili anche in questi ultimi giorni, sia per l’operatore sia per il cittadino.
Ognuno di noi ha consapevolezza di questo problema, o per esperienza personale o per esperienze riportate da amici e da parenti. Ogni volta che sento persone che sono incappate in queste situazioni, percepisco il danno sociale arrecato da questi comportamenti. Il distacco che si crea tra il cittadino amareggiato da esperienze negative e le forze dell’ordine crea un danno a tutto il meccanismo della sicurezza e della giustizia, innescando immotivati risentimenti verso tutta la categoria, che possono essere prodromici di comportamenti prevenuti da parte di fasce sociali più a rischio, che spesso sfociano in aggressioni o, in casi più fortunati in semplici ingiurie.
La mia proposta nasce quindi da esperienze interne ed esterne all’ambito delle forze di polizia, non ho mai conosciuto un Carabiniere o un poliziotto che avesse a priori atteggiamenti ostili verso il cittadino, ma durante la quotidiana attività qualcosa a volte non va e l’operatore di polizia si comporta in maniera anomala o avulsa dalle aspettative del cittadino. Quindi ritengo che un adeguato addestramento di tipo psicologico, mirante a fornire l’operatore di strumenti idonei per poter controllare le proprie emozioni e le situazioni di crisi, nonché l’introduzione dello studio delle tecniche di comunicazione possa migliorare la risposta delle forze dell’ordine e di conseguenza sviluppare una adeguata risposta in termini di collaborazione da parte dei cittadini che sfocerebbe in un maggior grado di sicurezza per tutti.
Francesco Caccetta*
[1] Sugli studi compiuti dalla Psicologa Criminologa DottoressaSimonetta Garavini;
[2]Garavini Simonetta, Psicologia, efficienza e sicurezza, Rivista Militare, 12/2008, pag.66
[3] [3]Garavini Simonetta, Psicologia, efficienza e sicurezza, Rivista Militare, 12/2008, pag.66
*Dott. Francesco Caccetta Luogotenente dei Carabinieri Laureato in Scienze per l’investigazione e la sicurezza Grafologo della consulenza peritale, esperto di Criminologia e tecniche investigative avanzate.